Il consenso è un fine e non già un mezzo. Accade invece sempre più di sovente che i termini si capovolgano e il consenso diventi il fine di molte azioni o attività, in particolare della politica, ma anche della vita quotidiana. Se andiamo a cercare, a grandi spanne, il senso etimologico della parola “consenso” scopriamo che esso è legato alla condivisione (il latino cum, con, insieme) di un sentire simile di qualcosa o verso qualcuno. Il contrario è infatti il “dissenso”, ovvero quando il sentimento, il sentire di qualcosa o verso qualcuno è diverso, se non addirittura contrario: il prefisso greco dus indica infatti qualcosa di negativo, proprio la non approvazione di qualcosa o dei comportamenti di qualcuno.
È, invece, progressivamente accaduto che l’implementazione del consenso sia diventata il metro con il quale prendere decisioni o assumersi o declinare responsabilità che volta per volta non fanno “crescere” il successo di una personalità, di un partito, di un movimento, oppure, anche solo con riferimento ad un evento o ad una proposta, ne determinano impopolarità o insuccessi. Le dinamiche democratiche vorrebbero che la “misurazione” del consenso rispetto ad azioni che hanno come spettro di azione un tempo medio-lungo di verifica, fossero cadenzate a ritmi prefissati, le legislature, tali comunque da non essere condizionate dalle oscillazioni umorali della scelta o demagogica o impopolare di un governo, di una maggioranza o anche solo di un’iniziativa legislativa o amministrativa del giorno per giorno.
La sempre maggiore abitudine ai sondaggi ha finito, invece, per drogare il sistema e alla lunga per influenzare, in modo spesso scientificamente incontrollato, il sistema della misurazione del consenso, in modo spesso tanto fibrillante, quanto irresponsabile. Non più scelte di lungo periodo, ma opzioni a breve misurazione e a corto raggio. Soprattutto producendo effetti talvolta sconsiderati sugli equilibri politici, economici finanziari o anche solo sociali. Non è un caso, infatti, che molte operazioni di Borsa o comunque operazioni che posso avare ricadute sul sistema finanziario e quindi economico, e anche monetario, internazionale vegano prese a Borse chiuse, al netto di quelle operazioni che – nella ormai globalizzata dimensione universale dell’economia – hanno rimbalzi transcontinentali, comunque influenti sui mercati di tutto il resto del mondo.
È possibile invertire questa tendenza allo scempio delle regole, oppure è un moto irreversibile e quasi crescente come quello della valanga, del quale ha parlato quasi mezzo secolo, ma pur sempre riferendosi ai sistemi sociali, il filosofo tedesco Theodor W. Adorno? Purtroppo temo proprio di no! Ma non tanto perché non sia possibile recuperare un senso ponderato e oggettivo del giudizio individuale o sociale, quanto piuttosto perché il concetto di corruzione – endemicamente diffuso nella nostra società e nel nostro tempo – ancora una volta si porta dietro la logica della “condivisione” il con, il cum di cui sopra: la cor-ruzionenon è mai un’infrazione isolata, individuale, singola, è sempre plurale, con altri, condivisa.
La sua fine è sempre un fatto o un momento tragico: esclusivamente quando la rottura, perde la condivisione e, il più delle volte accade per azioni repressive, quasi mai per “conversione” spontanea. Temo però che da siffatto tempo non solo siamo lontani, ma forse che ci allontaniamo sempre di più. Anche in nome di una falsa interpretazione del consenso: mezzo e non più fine.
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