Le contrapposte retoriche dell’”Andrà tutto bene” e del “Nulla sarà come prima” rischiano di farci perdere di vista la rotta che dovremo seguire nella ricostruzione.
No, non è andato tutto bene: 29.684 morti (al 6 maggio) sono un fardello indicibile di dolore, tanto più quanto più concentrati in determinate aree del Paese.
Adesso, vogliamo riconquistare le condizioni di libertà, democrazia e benessere di cui godevamo “prima”. E dunque attenzione a chi intende sfruttare la crisi come un’opportunità, sì, ma per rendere la società meno libera, gli individui più sorvegliati, l’economia più imbrigliata, il potere più penetrante, i diritti più conculcati.
Oggi più che mai, abbiamo bisogno di più stato, certo: di uno stato rapido ed efficiente nel migliorare la qualità dei servizi pubblici, a partire dalla salute, sui quali si fonda il rapporto di cittadinanza. Di uno stato che apra i cantieri e metta mano alle infrastrutture, che garantisca le condizioni perché gli aerei volino, non per pilotarli. Di uno stato che affronti le condizioni inaccettabili di disparità territoriali e di atomizzazione campanilistica che l’epidemia pure ha messo a nudo.
Non sono state settimane inutili. Abbiamo ristabilito delle priorità. Abbiamo riscoperto il valore dell’informazione di qualità, delle competenze e della ricerca, e la consapevolezza che scienza e dottrina sono sinonimi di critica e dubbio. Abbiamo percepito che la politica sarebbe una cosa seria. Abbiamo capito che le tecnologie sono preziose e delicate, strumento di crescita ma anche di dissoluzione dei rapporti sociali. Costretti a praticarlo, abbiamo colto che l’esercizio solitario delle pratiche culturali ne rappresenta un parziale tradimento, che esse non possono ridursi alla dimensione digitale a costo, altrimenti, di smarrirne il senso autentico: favorire il confronto, il dibattito, il senso di appartenenza, il consolidamento di una cittadinanza attiva e responsabile.
Ripartiamo da qui.